Intervista a Giovanni Jona-Lasinio

Giovanni Jona-Lasinio è un fisico teorico italiano, noto per i suoi pioneristici contributi alla teoria dei campi, ai fenomeni critici nelle transizioni di fase, alla meccanica statistica e ai fenomeni fuori dall'equilibrio. Dopo essersi laureato, parte per un soggiorno a Chicago dove collabora con Yochiro Nambu. Basandosi su un'analogia con la superconduttività, la loro collaborazione ha portato alla formulazione del modello di Nambu–Jona-Lasinio. Il loro lavoro, presentato in due articoli sulla rivista Physical Review, rappresenta un punto di svolta nella fisica delle particelle, aprendo la strada a una serie di nuovi sviluppi, tra cui il meccanismo di Higgs. Successivamente, usa ancora una volta il suo istinto per le analogie, strumento importante e spesso utilizzato nella sua opera scientifica, e firma con Carlo Di Castro un lavoro fondamentale sulle leggi di scala nelle transizioni di fase basate sul gruppo di rinormalizzazione. Influenzato dalla scuola di probabilità russo-sovietica, inizia a integrare concetti probabilistici nella sua linea di ricerca, dimostrando che alcune idee del gruppo di rinormalizzazione potevano essere interpretate come una naturale generalizzazione dei teoremi limite della teoria di probabilità. Si è dedicato poi allo studio della meccanica statistica fuori dall'equilibrio, settore in cui opera da diversi anni arrivando in collaborazione con Lorenzo Bertini, Davide Gabrielli, Alberto De Sole e Claudio Landim a una formulazione generale delle fluttuazioni macroscopiche in sistemi fuori dall'equilibrio che ha avuto molte applicazioni. È socio dell’Accademia dei Lincei, sezione di fisica, e dell’Academia Europaea, sezione di matematica.

 

Studio e formazione

Perché ha scelto di studiare fisica? Ha sempre avuto un interesse per questa disciplina o ha considerato anche altre opzioni?

Ho frequentato il liceo classico e me la cavavo bene a scuola, non è che studiassi moltissimo, ma riuscivo ad ottenere comunque buoni risultati. Ero particolarmente bravo nelle traduzioni dall’italiano al latino e a un certo momento ho pensato di studiare filologia classica, ma è stato un pensiero secondario, durato poco. Ho avuto un professore di scienze, Giorgio Tecce, diventato in seguito Rettore dell’Università di Roma la Sapienza, che raccomandava di intraprendere studi tecnici o scientifici perché di specialisti allora ce ne era un gran bisogno vista la situazione del dopo guerra. L’interesse per la fisica è iniziato durante il secondo anno del liceo. I giornali parlavano della teoria della relatività di Einstein e io ne rimasi molto incuriosito; già di per sé la parola “relatività” suscitava cosa interessanti. A casa avevamo una vecchia edizione dell’Enciclopedia Britannica, del 1929, in cui gli articoli scientifici erano molto ben fatti e lì lessi per la prima volta della relatività. Conoscevo poco l’inglese, ma iniziai a tradurre parola per parola, con carta e penna; non ci capii un granché, ma con quel poco feci ottime figure a scuola. Da quel momento in poi ho avuto in testa l’idea della fisica e, nello specifico, della fisica teorica. Ma l’altra grande rivoluzione della fisica era la meccanica quantistica, di cui non sapevo nulla e ci ho messo diverso tempo prima di capire la sua struttura. Il testo di Dirac fu essenziale.

Come è stato il suo percorso di studi?

Ho fatto gli studi universitari praticamente da non frequentante, perché lavoravo con mio padre. Lui era un ingegnere aeronautico, una personalità molto creativa e aveva prima della guerra una collaborazione col Ministero dell’Aeronautica, ma con le leggi razziali fu escluso da tutto. Dopo la guerra aveva messo su un ufficio di consulenza tecnica e commerciale che stentava a decollare e mi chiese di aiutarlo. Aveva un carattere molto particolare; se qualcuno gli chiedeva che cos’era, lui talvolta rispondeva: “Io sono un inventore!”. Aveva molto interessi, è stato anche un buon pittore, però era un accentratore e aveva un carattere instabile, non aveva pazienza e quindi il mio lavoro consisteva, in larga misura, nel sostenerlo moralmente nell’attività quotidiana: quando lui viaggiava ero io a mandare avanti l’ufficio. Non è stata un’esperienza felice perché gli anni Cinquanta erano anni molto frustranti e io volevo studiare la fisica mentre mio padre avrebbe preferito che mi iscrivessi a ingegneria, ma è stata una scuola di vita importante. Di conseguenza il tempo dedicato allo studio era decisamente molto limitato, anche se per la fisica avevo una forte inclinazione e imparavo rapidamente. Lo studio, in particolare della fisica e della matematica, richiede una forte concentrazione. Alla fine, mi sono laureato nel 1956 con due anni di ritardo e questa situazione ha prodotto in me insicurezze su quello che sapevo e su quello che non sapevo.

Come era l’ambiente universitario in quegli anni?

All’epoca era una cosa molto d’élite studiare fisica. Al terzo anno eravamo solo sei: quattro iscritti dal primo anno e due trasferiti dalla facoltà di ingegneria. I rapporti con i professori erano piuttosto formali. Ricordo che assistetti a degli esami di fisica teorica tenuti da Bruno Ferretti, un professore molto esigente, che pose a una studentessa del corso di laurea in Matematica e Fisica che preparava gli insegnanti della Scuola Media, un problema sul reticolo di Bragg. La povera malcapitata non capì la domanda e scoppiò in un fragoroso pianto. Fortunatamente riuscii successivamente a fare un buon esame di fisica teorica; Ferretti mi fece fare alla lavagna la teoria della disintegrazione α, un problema di tunneling. Ferretti non faceva domande semplici ma me la cavai. Almeno non ebbi più dubbi che volevo fare il fisico teorico.

Qual è stato l’argomento della tesi?

Era un progetto sulla fisica delle alte energie che era a Roma, e in tutta Italia, la fisica predominante. La feci con Giacomo Morpurgo, un teorico molto bravo che aveva solo cinque anni più di me e al quale invidiavo molto questo suo essere brillante. Mi diede una tesi “fenomenologica” in cui dovevo fare dei conti per un esperimento che doveva discriminare tra una serie di parametri, chiamati fasi di Fermi e fasi di Yang, entrambi compatibili con i dati sperimentali. Comunque, la questione venne risolta per via teorica con le cosiddette relazioni di dispersione; nella tesi provai a capire questi nuovi lavori teorici e inserii un capitoletto. Secondo me, riletta con l’esperienza di poi, la mia tesi non era un granché ma l’argomento non permetteva voli di fantasia. Molti anni dopo, quando eravamo diventati colleghi, Morpurgo mi disse: “Mi dispiace per l’argomento di tesi che ti ho dato!”. Io avrei voluto fare una tesi sulla teoria dei campi quantistici ma non ebbi il coraggio di dirglielo, mi sentivo troppo insicuro. 

Nel docufilm A Theoretical Life afferma che è delicato il passaggio dallo studio sui manuali al pensiero autonomo. Come è avvenuto per lei questo passaggio?

C’era uno studio in cui lavoravano tre giovani: Ezio Ferrari, Daniele Amati ed io. Ci scambiavamo idee e, secondo me, fummo degli autodidatti. 

Quali erano gli argomenti che più la interessavano? Come si sono sviluppate le prime fasi per la ricerca di una sua identità scientifica? E quali sono state le figure che l’hanno accompagnata in questo percorso?

Molti della mia generazione e di quella leggermente più giovane, erano interessati alla fenomenologia delle particelle elementari. Era, per così dire, il loro habitat naturale. Mentre per me non lo era e mi ci trovavo poco a mio agio, ero interessato a questioni più generali e forse più astratte. Durante gli anni di studio la materia che mi aveva appassionato di più era, per la sua generalità, la termodinamica. E questa è la parte più astratta della fisica classica. Poi mi interessava molto la meccanica statistica, di cui avevo letto i rudimenti durante il corso di laurea, e la teoria dei campi quantistici che si presentava come un linguaggio duttile e universale. Bruno Touschek teneva un corso molto interessante di teoria dei campi, ma bisognava seguirlo almeno due volte per capirlo. Dopo laureato venne a Roma Giorgio Salvini, che stava dando vita ai Laboratori Nazionali di Frascati e con il quale avevamo stabilito che mi avrebbe fatto da padre spirituale. Andavo, più o meno tutte le settimane, a fare una chiacchierata con lui: io gli parlavo delle difficoltà che avevo avuto nello studio e lui mi rispondeva che quella situazione sarebbe venuta a mio vantaggio. Ad ogni modo, Ferretti e Morpurgo erano andati via come professori ordinari e io non sapevo bene come orientare il mio lavoro di ricerca. Salvini mi propose di collaborare a una questione molto tecnica: l’impianto di vuoto del sincrotrone di Frascati. Io avevo ancora problemi di militare e alla fine ingaggiò un mio compagno di studi. Salvini anni dopo mi disse: “Io non ti volevo far fare quel lavoro perché avevo capito immediatamente che eri un teorico”. Se non avessi avuto problemi di militare, io credo, mi avrebbe preso per quel lavoro e la mia vita successiva sarebbe stata molto diversa! Nel 1957 Marcello Cini, un geniale fisico teorico che in quel momento era professore a Catania, fu chiamato a Roma da Edoardo Amaldi. Amaldi era direttore dell’Istituto di Fisica e riusciva e ottenere per la fisica fondi non spesi dai Ministeri e dall’amministrazione pubblica e questi venivano amministrati dal Cavalier Ludovico Zanchi, figura mitica dell’Istituto. Era veramente un’avventura fare il fisico a quel tempo. Comunque, devo dire che Cini rappresentò uno spartiacque. Stabilì sin da subito con noi persone più giovani rapporti molto informali. Era un personaggio molto interessante, per certi versi amletico e questa sua complessità poteva forse non essere compresa da qualcuno. Cini e Touschek, che di lì a poco propose l’idea dell’anello di accumulazione [1], presero in mano il gruppo teorico e iniziarono ad organizzare una certa quantità di seminari durante i quali iniziai ad interessarmi alla parte matematica della teoria dei campi. Werner Heisenberg in quel periodo stava lavorando a una teoria unificata delle particelle elementari e Touschek, che lo conosceva bene, decise di invitarlo a Roma. Del seminario di Heisenberg capimmo poco tutti: nonostante l’idea iniziale fosse chiara, i successivi sviluppi matematici che aveva fatto erano risultati incomprensibili. Ero, però, rimasto molto impressionato da questo carattere un po’ fondamentalista della teoria. Poteva essere vista come una specie di teoria del tutto, anche se questa terminologia è stata coniata successivamente per le stringhe, ma allora era quella che si poteva concepire come tale. Fu una sorta di ispirazione per me e questo interesse me lo sono portato dietro anche a Chicago quando sono andato a lavorare con Yochiro Nambu. Lui non aveva molta simpatia per questa teoria, ma nel nostro primo lavoro [2] partimmo dalla teoria di Heisenberg in cui era già presente la rottura spontanea di simmetria anche se, presumibilmente, Heisenberg non aveva in mente la rottura spontanea giusta, quella realizzata in natura. La storia risulta molto contorta, come tutte quelle che riguardano le ricerche scientifiche.


 

Il periodo a Chicago

Nel settembre 1959 decise di andare a Chicago a lavorare con Yochiro Nambu. Come mai scelse proprio quella meta?

Dopo la mia laurea venne a Roma Herbert Anderson, fisico sperimentale che era stato collaboratore di Enrico Fermi, e tenne un corso di fisica delle particelle. Ugo Amaldi, figlio di Edoardo, ed io prendemmo gli appunti di quelle lezioni, producendo un volume ciclostilato su cui molti italiani impararono la fisica delle particelle, anche se qualcuno disse che c’era qualche errore. D’altronde eravamo neofiti. Nell’estate 1959 ci fu una grande conferenza di particelle elementari a Kiev, alla quale partecipò anche Nambu. Per raggiungere Kiev fece tappa a Roma e tenne un seminario sulle funzioni di Green nella teoria dei campi e, dato che il mio desiderio era quello di capire bene questa teoria, lo apprezzai molto. Quando Anderson tornò negli Stati Uniti divenne direttore dell’Istituto Fermi di Chicago e mi invitò a passare un periodo lì. Io accettati e gli dissi che volevo lavorare con Nambu. 

Come è stato lavorare insieme?

Quando arrivai il rapporto con Nambu era di professore-giovane ricercatore; Nambu era di undici anni più grande di me ed era un fisico teorico già molto noto. Stava scrivendo una breve nota sulla conservazione della corrente assiale in cui arrivò a derivare una relazione, conosciuta col nome di relazione di Goldberger e Treiman, usando prevalentemente argomenti di invarianza. Questa nota si basava sull’idea che la massa del pione e la non perfetta conservazione in natura della corrente assiale avessero la stessa origine. Era un’idea geniale e mostrò veramente molto intuito fisico. Per di più aveva riformulato la teoria della superconduttività nel linguaggio della teoria non relativistica dei molti corpi, molto vicina alla teoria dei campi ma per certi versi più complicata, in cui sottolineò che le equazioni degli stati vicino alla superficie di Fermi sembravano simili a quelli dell’equazione di Dirac e propose un’analogia tra il gap dei superconduttori e il termine di massa. Ma alla ricerca di un argomento più forte e convincente mi fece leggere la versione preliminare dell’articolo. C’era un valore sperimentale del rapporto tra le costanti di accoppiamento vettoriale e assiale della teoria delle interazioni deboli e ci occupammo separatamente di calcolarlo perturbativamente, ottenendo però risultati diversi: il mio supportava la sua ipotesi sulla comune origine della massa del pione e della rinormalizzazione della corrente assiale, il suo invece la confutava. Lo ripetemmo diverse volte trovando gli stessi, diversi, risultati; alla fine gli spiegai dove, secondo me, faceva un errore. Ricordo che, accettando il mio calcolo, mi rispose in un tono non proprio contento: "You won", dopo di che iniziò a prendermi sul serio. Poi l’articolo fu pubblicato [3]. Il risultato del mio calcolo fu pubblicato nel secondo articolo che scrivemmo insieme. Cominciammo a costruire il nostro modello in cui insistetti di procedere in modo relativisticamente invariante, che era un modo molto più semplice del formalismo non relativistico da cui Nambu era partito riformulando la superconduttività. Il nostro punto di partenza era una Lagrangiana simile a quella di Heisenberg, che risultava invariante sotto la trasformazione chirale, cioè sotto quella trasformazione che Touschek aveva concepito per imporre uguale a zero la massa del neutrino nelle interazioni deboli. Non tentammo di affrontare la non rinormalizzabilità e introducemmo un cut-off invariante. Mi appassionai molto al nostro lavoro [4]. Io mi trovavo bene a lavorare con Nambu, ci capivamo facilmente anche se talvolta era un po’ criptico. Nella versione del primo articolo che lui aveva dato alla segretaria, i nostri nomi comparivano in ordine alfabetico, come era d’uso, ma lui decise di cambiarne poi l’ordine. Mi viene spesso chiesto quale fu la ragione poiché, secondo i criteri dell’epoca, questa inversione poteva significare un ridimensionamento del mio contributo. Anni dopo mi disse che in quel periodo si sentiva molto insicuro sul lavoro. Fui molto sorpreso da questa affermazione, data la riservatezza e autorevolezza del personaggio. A mia volta intimidito da una personalità come quella di Nambu, anche se ritenevo di aver contribuito in modo essenziale al lavoro come lui stesso dichiarava, non feci obiezioni all’inversione dei nomi. Lavorare con lui è stato molto importante per la mia formazione, come ho descritto nell’articolo del libro dedicato alla sua memoria [5]. Nell’ultima parte della sua vita ci eravamo riavvicinati e quando ricevette il Premio Nobel mi chiese di fare la Nobel Lecture al suo posto, dandomi completa libertà sul come farla. Di questo ho parlato più in dettaglio nel Memorial Volume.

Nambu le affidò il compito di presentare la vostra idea alla Midwest Conference on Theoretical Physics. Come fu accolta l’analogia con la teoria della superconduttività?

Nambu fu invitato a parlare a una conferenza annuale (1960) alla Purdue University, ma si ammalò gravemente un suo figlio e mi propose di andare al suo posto. Aveva preparato un testo che avrei presentato sul modello di particelle. La versione che aveva preparato usava il formalismo non relativistico, che era abbastanza complicato, e penso che nella presentazione mi discostai dal suo testo. Ero preoccupato perché alla conferenza c’erano nomi noti di esperti della teoria della superconduttività e della teoria dei campi. Ricordo in particolare Arthur Wightman, che conoscevo e ammiravo per la sua formulazione assiomatica della teoria dei campi. Temevo molto il suo giudizio, ma alla fine prese l’idea con interesse. Huzihiro Araki, altro grande esperto, se ben ricordo non fece commenti, così come Rudolf Haag. La sera della mia presentazione mi ritrovai a cena con John Bardeen, la B della teoria BCS [6] della superconduttività e già premio Nobel per i transistor, il quale trovò la mia relazione “very interesting”, d’altronde gli facevamo pubblicità su un altro settore!

Quali sono stati i successivi sviluppi?

L’introduzione della rottura spontanea di simmetria in fisica delle particelle è stato un punto di svolta in un settore dominante. L’unificazione elettro-debole si basa su questo fenomeno. Il passo intermedio è il cosiddetto meccanismo di Higgs (1964), la cui formulazione è stata frutto del contributo di più ricercatori, tra cui Anderson (1963), Brout ed Englert (1964), e Guralnik, Hagen e Kibble (1964) [7].  A questo proposito, sia Nambu che io ci siamo pentiti di non aver approfondito l’analogia con la superconduttività. Avevamo tutti gli elementi, considerando che un analogo del meccanismo di Higgs esiste anche in superconduttività. Vorrei fare un’osservazione che riguarda le nuove idee scientifiche in generale: alle volte sono nell’aria fino a quando qualcuno non le formula in modo comprensibile alla comunità. Il nostro lavoro ha avuto un successo inizialmente inaspettato. Allo stesso tempo un’idea simile, anche se in forma meno articolata, era stata proposta da due noti fisici sovietici, V.G. Vaks e A.I. Larkin [8]. Il loro lavoro però ha avuto poca risonanza, in parte attribuibile alle scarse comunicazioni allora esistenti con il mondo sovietico. Ricordo che negli USA, anche tra i fisici, c’era una certa diffidenza verso ciò che proveniva dall’URSS. Qualcosa di simile, ritengo, è avvenuto per la teoria della superconduttività di N. N. Bogoliubov [9] e che, secondo me, avrebbe meritato il Nobel. Per quanto riguarda l’unificazione elettrodebole i protagonisti furono Steven Weinberg, Abdus Salam e Sheldon Glashow [10]. Il nostro modello ha avuto poi molte applicazioni come teoria effettiva della cromodinamica a bassa energia per la quale rimando all’ampia rassegna [11]. 

Una direzione diversa in cui ho proseguito con il tema della rottura spontanea di simmetria è in fisica molecolare fornendo, in collaborazione con altri, una possibile spiegazione del cosiddetto paradosso di Hund che nel 1927 aveva fatto la seguente osservazione: esistono molecole chirali, apparentemente stabili, che ruotano il piano di polarizzazione della luce. Esse non sono invarianti per riflessione speculare e non possono quindi rappresentare autostati stazionari della Hamiltoniana che è invariante. È un argomento su cui mi piace ritornare in modo intermittente data la sua importanza in biologia e su cui ho collaborato con Pierre Claverie, scomparso prematuramente, Carlo Presilla e Cristina Toninelli [12]. Con Presilla abbiamo intenzione di riprendere il tema, se possibile a breve scadenza. Ho anche avuto interessanti discussioni sull’argomento con Jean-Pierre Eckmann.

In un passaggio in una vecchia intervista ha sottolineato come a Roma, verso la fine deli anni Sessanta, ci fossero tutti gli ingredienti per la formulazione della teoria elettrodebole data la presenza di Nicola Cabibbo e Luciano Maiani. C’è mai stata concretamente questa possibilità?

La storia, come è noto, non si fa con i ‘se’. Mi ricollego a quanto detto prima, Cabibbo e Maiani, due protagonisti della fisica teorica delle particelle, si trovavano pienamente a loro agio nella fenomenologia, mentre io avevo interessi diversi, ero più interessato alla struttura matematica. Non sempre le cose sembrano ovvie. Nella sua Nobel Lecture Steven Weinberg sottolinea quanto sia casuale il fatto che venga in mente l’idea giusta al momento giusto: lui stava cercando di applicare la rottura spontanea di simmetria alle interazioni forti; una volta in viaggio, si era reso conto che non era quella la strada giusta e che doveva applicarla alle interazioni deboli ed elettromagnetiche. 

 

Gruppo di Rinormalizzazione

Come è nata la collaborazione con Carlo Di Castro e il vostro interesse verso il gruppo di rinormalizzazione?

Il gruppo di rinormalizzazione è una relazione piuttosto complessa che le funzioni di Green dell'elettrodinamica quantistica soddisfano, scoperta negli anni '50 da Stueckelberg e Peterman [13]: permette di compensare un riscalamento delle lunghezze e dei momenti che compaiono come argomenti, con una trasformazione della costante di accoppiamento e un fattore moltiplicativo esprimibili mediante le stesse funzioni di Green. Si tratta perciò di una relazione non lineare. Era un tema che mi aveva molto affascinato. Nell’edizione inglese del Bogoliubov-Shirkov [14] c’è l’intero capitolo VIII dedicato a questo argomento; conoscevo inoltre un articolo di Gell-Mann e Low [15] dove veniva introdotto indipendentemente e dove veniva utilizzato per studiare comportamenti asintotici delle funzioni di Green. Tornato a Roma dopo l’esperienza americana i colleghi mi etichettarono come il teorico della Struttura della Materia a causa della parola ‘superconduttività’ nel titolo del mio lavoro con Nambu, riconoscimento a cui però non aspiravo. Mi consideravo un fisico teorico aperto a vari interessi e non ancora mi identificavo con un settore particolare della fisica. Carlo Di Castro era uno studente interessato alla struttura della materia e aveva chiesto la tesi a Marcello Cini. Per quanto ricordo, poiché Cini non era un esperto del settore, lo indirizzò a me e di fatto seguii io la tesi di Carlo, anche se il relatore ufficiale restò Cini. L’argomento della tesi era lo spettro delle eccitazioni nell’elio superfluido. La superfluidità è un fenomeno quantistico macroscopico affine alla superconduttività e su cui lavorava un gruppo sperimentale diretto da Giorgio Careri. Nacque anche un’amicizia con Carlo favorita dal fatto che spesso tornavamo insieme dall’Università. Dopo la laurea e un dottorato in Inghilterra, Di Castro andò nel 1966 a una Scuola in America dove seguì un corso tenuto da Leo Kadanoff, che parlò di teoria dello scaling e introdusse tramite un argomento fisico una particolare trasformazione a blocchi che faceva capire la validità dello scaling [16]. Ritroveremo più avanti una trasformazione a blocchi in relazione alla interpretazione probabilistica del gruppo di rinormalizzazione che sviluppai successivamente, ma con una normalizzazione diversa da quella di Kadanoff. Infatti, la mia interpretazione legava il gruppo di rinormalizzazione ai teoremi limite della teoria probabilità rivelandone il significato statistico. Tornato, Di Castro mi prestò le dispense del corso di Kadanoff. Dopo aver lavorato con Nambu ero particolarmente sensibile alle analogie e la mia reazione fu immediata: le equazioni della teoria dello scaling sembravano una versione semplificata delle equazioni del gruppo di rinormalizzazione. Cominciammo allora a discuterne, Di Castro mi parlò delle leggi di scala che conoscevo solo in parte e io illustrai il gruppo di rinormalizzazione in teoria dei campi. Nacque così il nostro breve lavoro [17], qualche anno prima rispetto a quelli di Wilson dedicati ai fenomeni critici. In questa nota si affermava che il gruppo di rinormalizzazione al punto critico dava un fondamento alle leggi di scala e l’idea veniva illustrata attraverso l’esempio della teoria del campo medio e di altre considerazioni più formali. Questo fu l’inizio della mia interazione con Di Castro, che continuò per qualche anno prima di prendere strade diverse, viste le nostre inclinazioni scientifiche abbastanza differenti. Avevamo tuttavia altri interessi comuni anche non scientifici.

Come vennero accolte le vostre idee?

In occidente il nostro lavoro non fu capito subito anche se fummo invitati a parlarne alla Scuola di Fisica di Varenna nel 1970 dedicata alle transizioni di fase. Ci furono reazioni negative, tra cui quella di un importante fisico del settore, Michael Fisher, che disse a Di Castro: “Jona mi ha raccontato a Parigi il vostro lavoro, ma o è sbagliato o è una banalità”. Fu rivalutato solo dopo il primo lavoro di Kenneth Wilson [18]. I fisici russi invece capirono subito: Patashinskii e Pokrovskii nella seconda edizione del loro libro Fluctuation Theory of Phase Transitions, uscita nel 1982 e tradotta anche in italiano [19], dedicarono spazio al nostro lavoro e ho avuto occasione di discuterne con gli autori. Io ho la seconda edizione russa, che non fu mai tradotta in inglese, a differenza della prima edizione, forse perché affermavano che l’approccio di Wilson e il nostro erano essenzialmente equivalenti. Devo dire che il lavoro di Wilson è una versione del gruppo di rinormalizzazione che contiene idee nuove e che ha influenzato molto sia la teoria dei campi che quella dei fenomeni critici. Ebbi molti anni dopo una corrispondenza con Fisher perché mi mandò in anticipo un articolo essenzialmente storico che stava per pubblicare sull’argomento [20]. Gli mandai anche una traduzione della parte che ci riguardava del libro russo, ma non cambiò opinione. Per lui il gruppo di rinormalizzazione di Wilson e quello della teoria dei campi che noi avevamo introdotto per spiegare i fenomeni critici erano distinti, e che si trattava di una coincidenza di nomi. Dopo la Scuola di Varenna, alla quale parteciparono sia Fisher che Kadanoff, vennero inviti ad altre conferenze importanti. Fui invitato a parlare alla Conferenza Battelle in onore di Lars Onsager [21] e nel 1973 al Nobel Symposium 24 [22]. A quest’ultimo incontro presentai una formulazione del gruppo di rinormalizzazione in termini dell’azione efficace che avevo introdotto anni prima in relazione a una versione variazionale non perturbativa della rottura spontanea di simmetria. Questa formulazione è stata ripresa recentemente in un interessante articolo con applicazione alla relatività generale quantistica [23]. Penso che il mio articolo possa aver influenzato la formulazione di Wetterich basata sull’azione efficace media [24].

A volte, come nel caso menzionato in precedenza della rottura spontanea di simmetria nella teoria dei campi, aprirsi alle nuove idee può sembrare complicato.

Le novità sono spesso difficili da assorbire e dire le cose troppo in anticipo può risultare controproducente perché molti non capiscono. Ad esempio, i lavori di Wilson costituivano un modo nuovo di vedere il gruppo di rinormalizzazione. I suoi primi contributi, non quelli sui fenomeni critici che sarebbero arrivati più tardi, erano basati sulla teoria di sorgente fissa nell’interazione pione-nucleone. Ricordo che ero per un periodo al \textit{Massachusetts Institute of Technology} (MIT) e Wilson venne a tenere un seminario a cui però non potei partecipare. Il giorno dopo chiesi a un collega, esperto del gruppo di rinormalizzazione, come fosse stato questo seminario. Lui mi rispose: “Wilson è estremamente intelligente, ma quello che ha raccontato ieri non era particolarmente interessante”. Per quanto ricordo, l’argomento del seminario era il lavoro [25] che conteneva le idee di base del gruppo di Wilson nella teoria di sorgente fissa. Si può passare vicino a qualcosa che rappresenta una svolta senza accorgersene. 

 

La Matematica

Alla fine degli anni Settanta si reca a Mosca. Come era entrato in contatto con l’ambiente matematico sovietico?

Agli inizi degli anni ’70 avevo preso una cotta per la matematica russo-sovietica e mi consideravo un fisico teorico con un forte interesse per la matematica. La cosa era iniziata nel periodo in cui ero professore a Padova e Giovanni Gallavotti, una figura di primo piano della fisica matematica italiana e internazionale, veniva ogni anno a farci seminari sull’approccio rigoroso alla Meccanica Statistica. Continuò poi negli anni ’80 con vari soggiorni a Parigi all’Institut des Hautes Etudes Scientifiques, un centro di grande prestigio per i matematici famosi che vi appartenevano o lo visitavano. A Parigi collaborai con un matematico americano, William G. Faris [26], con cui studiammo un’equazione stocastica in dimensione infinita che divenne in breve un importante riferimento del settore che i matematici denominarono il ‘modello standard’, imitando il nome del ben noto modello delle particelle. Probabilmente una delle prime figure che più mi aveva colpito tra i matematici russi è stato Vladimir Arnold. Il libro Ergodic Problems of Classical Mechanics, scritto con André Avez, è veramente un modello di comunicazione scientifica da seguire. Rimandano alle appendici, scritte tra l’altro benissimo, per tutti gli aspetti tecnici. Conoscevo questo libro per averlo usato in un corso alla Scuola di Perfezionamento in Fisica a Roma. C’erano alcuni romani che già frequentavano l’Unione Sovietica, poi iniziai anche io. Quando arrivai a Mosca per la prima volta, l’Accademia delle Scienze mi organizzò un corso di lingua e imparai un po’ di russo: per uno scienziato questo significava avere accesso alla loro straordinaria letteratura scientifica. Comunque, alcune riviste erano tradotte, tra cui quella che conteneva articoli di rassegna come la Russian Mathematical Surveys, che nella dicitura russa era Uspekhi Matematicheskikh Nauk (Successi delle Scienze Matematiche). Iniziai così ad avvicinarmi alla teoria della probabilità, quella alla maniera di Andrej Kolmogorov e la sua scuola, tra cui Yakov Sinai e Roland Dobrushin per intenderci. Con Sinai ho stretto poi un legame di amicizia che è continuato sia quando era in URSS che durante il suo soggiorno in Occidente.

Mi ero inoltre appassionato alla teoria dei sistemi dinamici, settore in cui i russi erano all’avanguardia. Nel 1970 su una rivista sovietica, in un numero speciale per i cento anni dalla nascita di Lenin, era uscito un articolo di Sinai sulla teoria del biliardo, che era risultato essere una delle grandi conquiste della teoria dei sistemi dinamici. Successivamente Sinai mi raccontò che ci furono dei problemi durante la pubblicazione, perché parlare di biliardo in un numero dedicato a Lenin non era considerato abbastanza serio. Tra l’altro, Giovanni Gallavotti si era rifatto tutti i conti e aveva trovato una serie di errori, salvo riscontrare che i risultati finali erano tutti giusti. Scrisse, come poi mi ha raccontato, a Sinai dicendo di aver trovato questi errori. Lui rispose molto tranquillamente: “Ma non è importante, tanto il risultato è giusto!”. Forse era questo un motivo per cui la matematica sovietica era meno popolare in Occidente, dove i francesi si consideravano la punta di diamante della matematica, anche perché i sovietici avevano l’abitudine di annunciare i risultati senza pubblicare subito le dimostrazioni. Erano due mondi con delle profonde differenze.

Ha menzionato un suo interessamento per la teoria della probabilità. In che modo questa si è allacciata alla sua linea di ricerca?

La mia conoscenza della matematica, e in particolare della teoria della probabilità, era limitata, ma mi chiedevo quali strumenti potessero essere introdotti nello studio del gruppo di rinormalizzazione. In quel periodo ero professore a Padova e, dato che l’Istituto di Matematica e quello di Fisica erano separati da pochi metri, andavo spesso a leggere riviste e libri nella biblioteca di matematica. Una volta, passando davanti al settore della probabilità, vidi un libro intitolato Limit Distributions for Sums of Independent Random Variables i cui autori erano Andrej Kolmogorov e Boris Gnedenko. Sfogliandolo, a un certo punto, incontrai quelle che vengono chiamate distribuzioni stabili e si accese ancora la mia inclinazione per le analogie: sembravano le equazioni di punto fisso per il gruppo di rinormalizzazione alla Wilson scritte per le distribuzioni di probabilità, che corrispondevano a particelle non interagenti. E qui rientrano i blocchi di Kadanoff, ma con una normalizzazione diversa: mentre la sua corrispondeva alla legge dei grandi numeri, la mia era legata ai teoremi limite. Erano già usciti lavori sui modelli gerarchici di Freeman Dyson. I lavori che ebbero un grande impatto furono quelli di Bleher e Sinai [27] perché fecero un grande passo in avanti verso un approccio matematico più rigoroso, riuscendo a dimostrare l’esistenza di punti fissi gaussiani e non gaussiani. I modelli gerarchici appaiono come deformazione delle distribuzioni stabili per interazioni a blocchi opportunamente normalizzati.

Avevo avuto la classica folgorazione.  Scrissi, ispirandomi alle equazioni di Kolmogorov e Gnedenko e introducendo il concetto di processo stocastico stabile, un articolo[28] nel 1974 in cui proponevo un’interpretazione probabilistica del gruppo di rinormalizzazione e ne davo quindi un’interpretazione statistica. È, infatti, possibile, dimostrare che le idee del gruppo di rinormalizzazione possano essere riviste come una naturale generalizzazione dei concetti e dei metodi dei teoremi limite della teoria della probabilità. Avevo in tal modo mostrato che il gruppo di rinormalizzazione introduceva una nuova classe di teoremi limite (generalizzando il Teorema del Limite Centrale per variabili debolmente dipendenti) per variabili fortemente dipendenti. Il concetto di processo stocastico stabile è stato poi ripreso dai probabilisti, in particolare da Dobrushin e Sinai. A quel tempo si diffondevano i risultati scientifici tramite i preprint e quel lavoro incuriosì talmente che ebbi qualcosa come ottocento richieste. Ne facemmo una versione più rigorosa [29] con Giovanni Gallavotti e che poi pubblicammo su Communications in Mathematical Physics. Dopodiché il mio interesse si concentrò sostanzialmente sulla matematica. Tornato a Roma, scrissi con Marzio Cassandro, su suggerimento di un noto collega inglese, Geoffrey Sewell, un articolo sulla versione probabilistica del gruppo di rinormalizzazione [30]. Molti anni dopo scrissi una nuova rassegna sul gruppo di rinormalizzazione e la probabilità [31].

Quindi la sua permanenza a Padova segnò una svolta nei suoi interessi scientifici 

Il periodo padovano fu molto intenso scientificamente e interessante anche per i contatti politici. La politica in quel periodo era parte integrante nella vita universitaria e i contatti erano più facili in una città delle dimensioni di Padova. Lavorai scientificamente in particolare con Giancarlo Benettin e Attilio Stella. Entrambi si sono laureati con me e si sono affermati: il primo nella teoria dei sistemi dinamici, il secondo nella fisica delle transizioni di fase. Su un piano più ideologico interagii con Mario De Paoli, Professore nella Scuola Media, e Renato Nobili, un mio collega. Parteciparono alle lezioni di storia della scienza di cui parlerò successivamente. L’avvicinamento alla matematica è avvenuto gradualmente dopo un periodo in cui collaborai con il fisico tedesco Hans Dieter Dahmen [32]. Formulammo un approccio alla teoria dei campi quantistici alternativo ai metodi costruttivi cui accennerò dopo. Si basava su principi variazionali ed equazioni alle derivate funzionali analoghi a metodi sviluppati in meccanica statistica, in particolare da Cyrano De Dominicis e Paul Martin, ma non ci preoccupammo troppo del rigore. Senza dubbio nel mio interesse per la matematica fui influenzato dalle lezioni di Gallavotti e da Sergio Doplicher, mio ex studente a Roma per la laurea, che pure venne a Padova a fare un ciclo di seminari. Sergio Doplicher è stato uno dei protagonisti nello sviluppo dell’approccio algebrico alla teoria dei campi. Più in generale, dopo il mio ritorno a Roma, frequentai spesso colleghi matematici o fisici matematici e i loro convegni. Tra i convegni fu importante per me partecipare a quelli organizzati sui processi stocastici da Giuseppe Da Prato e Luciano Tubaro. Voglio qui ricordare anche la mia interazione con i colleghi fisici matematici di Bologna, in particolare Sandro Graffi, e con i marsigliesi dell'Universita`di Luminy, Michel e Madeleine Sirugue.

Quali sono stati i suoi maggiori interessi nella fisica matematica?

Continuai a lavorare sull’interpretazione probabilistica e approfondii molti temi, tra cui la teoria delle grandi fluttuazioni e quello che imparavo lo comunicavo ai miei colleghi più giovani in un seminario che tenevo il sabato mattina. Tra le persone che partecipavano al seminario c’erano Alfonso Sutera, che provò ad applicare la teoria delle Grandi Fluttuazioni al problema delle glaciazioni, Roberto Benzi e Angelo Vulpiani. Sutera tenne poi un seminario al quale partecipò anche Giorgio Parisi e il cui intervento portò successivamente all’introduzione del concetto di risonanza stocastica [33]. Se ben ricordo fui referee di uno di questi lavori. Gli eventi, alle volte, si intrecciano in maniera abbastanza complicata. Giorgio Parisi nella sua autobiografia [34] ha raccontato del fenomeno della risonanza stocastica.

Con due, prima studenti, poi collaboratori e oggi entrambi professori nell’area romana, Fabio Martinelli ed Elisabetta Scoppola, applicammo la teoria delle grandi deviazioni per sviluppare un nuovo approccio al limite semiclassico della meccanica quantistica [35], focalizzandoci principalmente sui problemi di tunneling. Il nostro approccio si basava sul metodo della quantizzazione stocastica proposto da Edward Nelson [36], che aveva dato una formulazione della meccanica quantistica in termini di equazioni stocastiche. La connessione tra processi stocastici e meccanica quantistica ha una lunga storia [37]. In quest'ultimo articolo dimostrai anche che, se si include nella meccanica di Nelson lo spin, su cui avevamo precedentemente fatto un modello con Fabrizio De Angelis, si ottiene in modo naturale l’interpretazione geometrica degli spinori della teoria di Cartan. Con Martinelli e Scoppola scoprimmo la forte instabilità dell’effetto tunnel sotto perturbazioni che rompono la simmetria e successivamente ci inventammo dei modelli gerarchici in cui era possibile dimostrare il fenomeno della localizzazione di Anderson [38]. Questo lavoro poi costituì la base della dimostrazione più generale della localizzazione in un potenziale stocastico. C’è da aggiungere che la dimostrazione della localizzazione di Anderson fu uno dei risultati rilevanti della fisica matematica di quel periodo [39]. Uno sviluppo interessante fu la tesi di dottorato di Filippo Cesi: visto che nel limite semiclassico c’è una forte instabilità, aveva trovato degli algoritmi che permettevano di decidere dove la funzione d’onda fosse concentrata durante processi di tunneling multiplo. Questi lavori vennero accolti in maniera positiva e piacquero a Barry Simon, che è uno degli autori di una serie di volumi sui metodi della fisica matematica moderna che da anni sono il vademecum dei fisici matematici. Il nostro approccio, secondo la mia opinione, chiariva anche un problema sollevato da Richard Feynman. Se si prende uno ione H2+, l’elettrone fa tunneling tra due pozzi prodotti dal potenziale coulombiano intorno a ciascun protone. Feynman aveva osservato che se ci poniamo il problema di sapere dove si trova l’elettrone, lo troviamo sempre in un solo pozzo. Infatti, se consideriamo lo ione idrogeno in interazione con l’ambiente ci sono piccole perturbazioni in grado di concentrare l’elettrone in un solo pozzo a causa dell’instabilità dell’effetto tunnel.

Una diversa nozione di quantizzazione stocastica fu poi introdotta da Giorgio Parisi e Wu Yong-Shi [40] con la seguente idea: considerare la teoria dei campi come stato stazionario di un processo stocastico introducendo un tempo addizionale. Loro avevano affrontato il problema in teoria delle perturbazioni e con una motivazione specifica nell’ambito delle teorie di gauge. La domanda che mi ponevo io era se fosse possibile dare un significato rigoroso a quel metodo e a quelle equazioni. Mi ero abbastanza interessato alle tecniche di analisi funzionale e probabilistiche applicate alla teoria quantistica dei campi, per intenderci quelle alla Glimm, Jaffe, Nelson, Simon, Guerra, Rosen e altri, che prende il nome di teoria dei campi costruttiva. A tempi immaginari la teoria dei campi diventa un problema probabilistico completamente classico ma infinito-dimensionale. Nacquero così due lavori scritti in collaborazione con P.K. Mitter [41], nel primo dei quali si riusciva a dare un senso matematico preciso a un’equazione stocastica rinormalizzata in cui comparivano costanti di rinormalizzazione infinite. Poi sviluppammo la teoria delle grandi fluttuazioni per tali equazioni singolari. Questi risultati, negli anni, hanno contribuito alla nascita di un vasto settore di matematica, soprattutto grazie ai lavori di Martin Hairer, che ha ottenuto la Medaglia Fields nel 2014, di Massimiliano Gubinelli, oltre a un risultato particolarmente importante di Da Prato e Debussche. Fin dal tempo della mia laurea esisteva la seguente convinzione: i fisici si inventano la matematica che serve; e di questo ero abbastanza convinto anche io. Un mio amico matematico mi ha detto: “I matematici fanno la fisica del secolo passato, i fisici fanno la matematica del secolo futuro”. Tant’è vero che Fermi aveva dato il buon esempio: aveva raccontato a Mauro Picone le equazioni non-lineari del modello di Thomas-Fermi per cui non esisteva una teoria che dimostrasse l’esistenza di soluzioni. Picone formulò una teoria che risolveva questo problema e scrisse un lavoro che mandò a Fermi, il quale lo rispedì indietro dicendogli che non era interessato. Questo è quello che raccontano le leggende metropolitane!

La Meccanica Statistica dei sistemi fuori dall’equilibrio

Quali sono ad oggi i suoi principali interessi di ricerca?

La teoria della probabilità si è rivelata il filo conduttore che ha unito i miei interessi, dalla teoria dei campi alla meccanica statistica fuori dall’equilibrio, settore a cui mi sono dedicato da molti anni. Studiare sistemi fisici fuori dall’equilibrio è impresa non facile per la varietà dei fenomeni di non-equilibrio per cui si può dubitare della possibilità di una teoria generale come la termodinamica. La teoria di riferimento è stata per lungo tempo quella di Lars Onsager fatta negli anni ’30, che si riferiva ai sistemi vicino all’equilibrio. Per di più, non si era in grado di studiare rigorosamente sistemi fisici realistici, ma solo gas sul reticolo. Avevo la curiosità di verificare se la simmetria di Onsager dei coefficienti di trasporto valesse solo per casi di invarianza sotto time reversal microscopico esatto. Studiando un po’ l’argomento mi ero convinto che una condizione così forte non fosse necessaria: era sufficiente una validità statistica di questa invarianza. Con Davide Gabrielli e Claudio Landim, probabilista brasiliano vicino alla meccanica statistica, abbiamo sviluppato modelli che, pur essendo all’equilibrio, non soddisfano l’invarianza sotto time reversal a livello microscopico. Abbiamo constatato che durante il passaggio dalla descrizione microscopica a quella macroscopica c’è una perdita di informazione che permette alla simmetria di Onsager di persistere anche senza assumere l’invarianza a livello microscopico. Una caratteristica degli stati stazionari fuori dall’equilibrio è la presenza di correlazioni spaziali su scala macroscopica analogamente a quanto avviene nelle transizioni di fase al punto critico. Insieme a Giada Basile, mia studentessa per la laurea, abbiamo verificato su modelli di reazione-diffusione non lineari che, se si perde l’invarianza sotto time reversal in modo forte, cioè in modo tale che le equazioni macroscopiche dell’idrodinamica cambino, si arriva ad ottenere correlazioni a distanze macroscopiche. Poi in collaborazione con Lorenzo Bertini, Davide Gabrielli, Alberto De Sole, miei studenti per la laurea anni fa e oggi ricercatori molto affermati, e con Claudio Landim abbiamo formulato una teoria generale delle fluttuazioni macroscopiche in sistemi fuori dall’equilibrio che nei decenni recenti ha avuto diverse applicazioni, forse al di là delle nostre stesse aspettative. Abbiamo scritto un articolo di rassegna molto citato [42] e pubblicato sulla Reviews of Modern Physics che, avendo un impact factor di oltre 40, rappresenta una specie di consacrazione del nostro lavoro.

Vorrei parlare di una mia recente nota in parte storica [43]. Il secondo principio della termodinamica, nella formulazione attribuita a Clausius, afferma che il calore non fluisce naturalmente da una sorgente a temperatura più bassa verso una a temperatura più alta. Clausius è anche l’inventore dell’entropia. La domanda che mi sono posto più volte è: in un contesto puramente termodinamico, come era arrivato a concepire l’entropia? Sono andato a leggermi le memorie originali, che trovo molto illuminanti. Tuttavia, per qualche motivo, le sue argomentazioni non hanno suscitato particolare interesse e non sono riportate nei trattati di termodinamica che conosco. Clausius si era concentrato non sugli stati ma sulle trasformazioni. Infatti, una volta definita l’entropia e si fissa lo stato iniziale e quello finale di una trasformazione, la differenza di entropia è data dall’integrale dQ/T ed è indipendente dal protocollo scelto per collegare gli stati, a condizione che la trasformazione sia reversibile e quindi infinitamente lenta. Come conseguenza si ha che tutte le trasformazioni reversibili tra due stati fissati sono equivalenti, introducendo così un principio di invarianza. Egli affermava che doveva esistere una quantità, che lui aveva chiamato valore di equivalenza associato alle trasformazioni, identificando poi tale grandezza con l’entropia. La cosa interessante è che una relazione che avevamo trovato ma non interpretato per il non-equilibrio, almeno per sistemi diffusivi, ha lo stesso carattere. Stabilisce una relazione di equivalenza tra trasformazioni in cui è presente dissipazione che può differire tra trasformazioni equivalenti. Il ruolo dell’entropia è sostituito dall’energia libera all’equilibrio. La cosa che mi sorprende è che, come δQ/T è un differenziale esatto, anche nel nostro caso si può trovare una forma differenziale esatta che collega due stati. Ancora una volta l’integrale non dipende dal protocollo scelto. Capire se l’idea di equivalenza è estendibile oltre i sistemi diffusivi sarebbe un passo avanti per lo studio del non equilibrio.

 

Sull’insegnamento, sulla ricerca e sulla Storia della Scienza

Come è stato il suo rapporto con i tesisti/giovani ricercatori e, più in generale, con l’insegnamento? 

Quando ho cominciato a insegnare mi sono reso conto di una cosa fondamentale: il ruolo degli studenti nel far maturare l’insegnante tramite le loro domande. Devo dire che ho imparato molto da tutti i miei studenti e ho cercato, e imparato, ad essere onesto con loro. Se non avevo la risposta alle loro domande ho cominciato ad ammettere semplicemente: “Ci penso e ve lo dirò la prossima volta”. Certo, all’inizio non facevo così, cercavo qualche escamotage per rispondere. Parlai di questo fatto col famoso matematico Isadore Singer, co-autore dell’altrettanto famoso teorema di Atiyah-Singer, usato anche dai fisici. Singer vinse il Premio Abel nel 2004. Lui era professore al MIT e là facevano le riprese delle lezioni. Mi disse di averle riguardate e le commentò dicendo che si vergognava perché faceva i salti mortali nel tentativo di rispondere alle domande degli studenti. 

La tendenza, ad oggi ben consolidata, è quella di pubblicare molti lavori. Cosa pensa della politica del publish or perish?

Io appartengo a una generazione in cui uno era libero di pensare alle cose che lo interessavano e, anzi, se si pubblicava troppo c’era il rischio di essere considerati poco seri. Oggi i giovani ricercatori devono pubblicare molti lavori all’anno per essere presi in considerazione e, secondo il mio punto di vista, non possono provare una grande soddisfazione nel loro lavoro. Ho avuto la fortuna di partecipare a un periodo di grande evoluzione della fisica ma oggi non so se sceglierei ancora questa strada. 

Lei ha tenuto per molti anni il corso di Storia della Scienza. Come è nato questo suo interesse?

Qui dovrei aprire una lunga digressione che rimando ad altra occasione. In breve, ho tenuto il corso per due anni a Roma e per quattro a Padova. C’era da parte mia uno sforzo di legare lo sviluppo della scienza alla struttura sociale di un’epoca. A volte riuscivo, altre volte no. Fui ispirato dalla lettura di un famoso storico della scienza francese di origine russa, Alexandre Koyré il quale sosteneva che un’idea scientifica è strettamente legata alla cultura generale dell’epoca in cui questa si sviluppa [44]. Negli anni ’30 John Bernal, un fisico marxista, scrisse un importante libro sul ruolo sociale della scienza. Bernal, poi Cini e altri lo associavano alla struttura del sistema capitalistico e in particolare agli impieghi industriali e militari della scienza. Con Giovanni Ciccotti, con cui discussi intensamente in questi anni e che fu, insieme a Marcello Cini, uno degli ispiratori di questo mio interesse, cercammo di andare oltre, di allargare questa prospettiva fino a includere gli aspetti concettuali della scienza. Partecipai negli anni ’70 alla scrittura di un libro, L’Ape e l’Architetto, con Giovanni Ciccotti, Marcello Cini e Michelangelo de Maria, riedito poi nel 2011 con una serie di articoli di corredo [45] che suscitò molte discussioni e polemiche anche nella comunità scientifica. Recentemente è stato tradotto in inglese.

Coltiva ancora oggi questo interesse?

Un problema che mi ha interessato recentemente è la comunicazione (o piuttosto la mancanza di comunicazione) tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica. L’incomunicabilità tra le due culture rappresenta una impasse storica e un serio ostacolo alla formazione di cittadini consapevoli delle scelte scientifiche che la politica è chiamata a compiere. Cito un fatto relativamente recente, rappresentato dal progetto americano del Super Collider. Agli inizi degli anni ’90 si era aperto un dibattito negli US sulla spesa per finanziare il progetto di un nuovo acceleratore di particelle. Le trascrizioni degli interventi al senato americano rivelano discussioni a livello concettuale, con la partecipazione di due Premi Nobel, Steven Weinberg e Philip Anderson, che rappresentavano le parti pro e contro la costruzione. Weinberg sottolineava il carattere fondamentale della fisica delle particelle e le sue esigenze interne, mentre Anderson, che era uno dei maggiori esperti di fisica della materia, ragionava anche in termini di big science e small science che sono aspetti di rilevanza economica e sociale. Anderson definì la discussione un dibattito filosofico di alto livello, che fu poi ripreso da storici e filosofi della scienza americani. Nonostante il forte sostegno dell’allora Presidente Clinton e i soldi già spesi, il progetto venne cancellato definitivamente. Si è trattato di una decisione politica complessa che ha avuto conseguenze importanti per la ricerca americana, presa da persone che forse non erano tutte consapevoli delle molte facce del problema [46].


Note:  

[1] Bruno Touschek rivestì un ruolo di primaria importanza nello sviluppo degli acceleratori di particelle, supervisionando la costruzione dell’Anello di Accumulazione (AdA) che fu il primo acceleratori di particelle-antiparticelle. 

[2] Y. Nambu, G. Jona-Lasinio Rev. 122,345 (1961).

[3] Y. Nambu Phys. Rev. Lett. 4, 380 (1960).

[4] Il modello di Nambu–Jona-Lasinio venne proposto in due articoli pubblicati sulla Physical Review:

Il primo richiamato nella nota [2]; Y. Nambu, G. Jona-Lasinio Phys. Rev. 124,246 (1961).

[5] Memorial volume Y. Nambu, eds. Lars Brink, Lay Nam Chang, Moo-Young Han, Kok Khoo Phua, World Scientific (2016).

[6] J. Bardee, L.N. Cooper, J.R. Schrieffer Phys. Rev. 108, 1175 (1957).

[7] W. Anderson, Phys. Rev. 130, 439 (1963); F. Englert, R. Brout, Phys. Rev. Lett. 13, 321 (1964); P. W. Higgs, Phys. Rev. Lett. 13, 508 (1964); P. W. Higgs, Phys. Rev. 145, 1156 (1966); G. S. Guralnik, C. R. Hagen, T. W. B. Kibble, Phys. Rev. Letters 13, 585 (1964).

[8] V. G. Vaks e A. I. Larkin, J. Exptl. Theoret. Phys. (U.S.S.R.) 40, 282-285 (1961); translation in Soviet Phys. JEPT 13, 192 (1961).

[9] N. N. Bogoliubov, J. Exptl. Theoret. Phys. U.S.S.R, 34, 65 (1958), translation Soviet Phys. JEPT 34 (7), 41 (1958).

[10] S. Weinberg, Phys. Rev. Lett. 19, 1264 (1967); A. Salam, Proceedings of the Eighth Nobel Symposium, ed. N. Svartholm, Stokholm 367 (1968); S. L. Glashow, Nucl. Phys. 22, 579 (1961).

[11] T. Hatsuda, T. Kunihiro, Phys. Rept. 247, 221 (1994).

[12] P. Claverie, G. Jona-Lasinio, Phys. Rev. A, 33, 2245 (1986); G. Jona-Lasinio, P. Claverie, Prog. Theor. Phys. Suppl. 86, 54(1986); G. Jona-Lasinio, C. Presilla, C. Toninelli, Phys. Rev. Lett., 88, 123001 (2002); C. Presilla, G. Jona-Lasinio, Phys. Rev. A, 91, 022709 (2015).

[13] E. C. G. Stueckelberg, A. Petermann, Helv. Phys. Acta, 26, 499 (1953).

[14] N.N. Bogoliubov, D.V. Shirkov, Introduction to the Theory of Quantized Fields, Interscience (1959).

[15] M. Gell-Mann e F. Low, Phys. Rev. 95, 1300 (1954).

[16] L. P. Kadanoff, Physics 2, 263 (1966).

[17] C.Di Castro, G.Jona-Lasinio On the microscopic foundation of scaling laws Physics Letters A, Vol. 29, Issue 6 (1969).

[18] K.G. Wilson, Phys. Rev. B 4, 3174 (1971).

[19] A. Z. Patašinskij, V. L. Pokrovskij, Teoria delle fluttuazioni nelle transizioni di fase, Editori Riuniti (1985).

[20] M. E. Fisher, Rev. Mod. Phys., 70, 653 (1998).

[21] G. Jona-Lasinio, Renormalization Group and Theory of Phase Transitions in Critical Phenomena in Alloys, Magnets, and Superconductors, McGraw-Hill 189 (1971).

[22] G. Jona-Lasinio, Generalized Renormalization Transformations in Collective Properties of Physical Systems, Nobel Symposium 24, Nobel Foundation 38 (1973).

[23] A. Baldazzi, R. Ben Alì Zinati, K. Falls, SciPost Phys 13, 085 (2022).

[24] C. Wetterich, Phys. Lett. B 301, 90 (1993).

[25] K. G. Wilson, Phys. Rev. 140, B445 (1965).

[26] W G Faris and G Jona-Lasinio, J. Phys. A: Math. Gen. 15, 3025 (1982).

[27] P.M Bleher e Ja. G. Sinai Investigation of the critical point in models of the type of Dyson’s hierarchical models Commun. Math. Phys 33, 23-42 (1973); P.M Bleher e Ya. G. Sinai Critical Indices for Dyson’s Asymptotically Hierarchical Models Commun. Math. Phys 45, 247 (1975).

[28] G. Jona-Lasinio, The Renormalization Group: A Probabilistic View Nuovo Cim. B Vol. 26, 9 (1975).

[29] G. Jona-Lasinio, Nuovo Cim. B 26, 9 (1975); G. Gallavotti, G. Jona-Lasinio Limit, theorems for

multidimensional Markov processes Comm. Math. Phys., 41, 301 (1975).

[30] M. Cassandro, G. Jona-Lasinio, Adv. Phys. 27, 913 (1978).

[31] G. Jona-Lasinio, Physics Reports 352, 439 (2001).

[32] H. D. Dahmen, G. Jona-Lasinio, Nuovo Cimento, 52 A, 807 I (1967); ibidem, 62 A, 889 II (1969).

[33] R. Benzi, A. Sutera and A. Vulpiani, The mechanism of stochastic resonance, J. Phys A: Math. Gen.14, L453 (1981); R. Benzi, G. Parisi, A. Sutera and A. Vulpiani, Stochastic resonance in climate change, Tellus, 34, 10 (1982).

[34] G. Parisi, P. Paterlini, Gradini che non finiscono mai. Vita quotidiana di un Premio Nobel, La Nave di Teseo (2022).

[35] G. Jona-Lasinio, F. Martinelli, E. Scoppola, Comm. Math. Phys. Vol 80, 223 (1981).

[36] E. Nelson, Dynamical Theories of Brownian Motion, Princeton University Press (1967); E. Nelson, Quantum Fluctuations, Princeton University Press (1985).

[37] Vedi ad esempio: G. Jona-Lasinio, Colloque en l’Honneur de Laurent Schwartz, 2, Asterisque 203 (1985).

[38] G. Jona-Lasinio, F. Martinelli, E. Scoppola, Ann. Inst. Henri Poincaré 42, 73 (1985).

[39] J. Frohlich, F. Martinelli, E. Scoppola, T. Spencer, Comm. Math. Phys., 101, 21 (1985); F. Martinelli, E. Scoppola, La Rivista del Nuovo Cimento, 10, n. 10 (1987).

[40] G. Parisi, Wu Y.-Shi, Perturbation Theory without Gauge Fixing Scien Sin. 24, 483 (1981).

[41] Jona-Lasinio, P.K. Mitter, On the Stochastic Quantization of Field Theory, Commun. Math. Phys. 101, 409 (1985); G. Jona-Lasinio, P.K. Mitter, Large Deviation Estimates in the Stochastic Quantization of φ⁴₂, Commun. Math. Phys. 130, 11 (1990).

[42] L. Bertini A. De Sole, D. Gabrielli, G. Jona-Lasinio e Claudio Landim, Macroscopic fluctuation theory Rev. Mod. Phys. 87, 593 (2015).

[43] G. Jona-Lasinio On Clausius’ approach to entropy and analogies in non-equilibrium, Ensaios Matematicos, 38 (2023) 315, arXiv:2306.04395.

[44] A. Koyre’, Etudes Galileennes, Hermann Paris (1939).

[45] G. Ciccotti, M. Cini, M. De Maria, G. Jona-Lasinio G., L’Ape e l’Architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico, Feltrinelli, Milano 1976 e Franco Angeli, Milano 2011.

[46] L. Brown, B. Pippard, A. Pais, Pysics of the twentieth century Institute of Physics Publishing and American Institute of Physics press, New York, 1995

Giovanni Jona-Lasinio