“Quando von Neumann chiacchierava con mio figlio di tre anni sembrava mettersi al suo stesso livello; a volte mi sono chiesto se facesse la stessa cosa con tutti noi.”[1]
Leggendo i contributi che Enrico Fermi diede alla disciplina, ci si può imbattere in quello che prende il nome di Paradosso di Fermi, che tratta dell’impossibilità di entrare in contatto con forme di vita extraterrestri. Sembra che questo paradosso sia nato durante una conversazione tra alcuni colleghi, come scrive György Marx nel suo libro “La voce dei marziani”[2], dove riporta le lunghe e ragionate domande che si poneva il fisico italiano:
“L’universo è vasto e contiene miriadi di stelle, molte delle quali non dissimili dal nostro Sole. È probabile che molte di queste stelle abbiano pianeti che le orbitano intorno. Una buona parte di essi avrà acqua liquida sulla superficie e un’atmosfera gassosa. Gli esseri viventi più semplici si moltiplicheranno, si evolveranno e diventeranno più complessi. Seguiranno la civiltà, la scienza e la tecnologia. Poi, desiderando nuovi mondi, viaggeranno verso pianeti vicini e poi lontani, fino al diffondersi in tutta la galassia. Queste persone eccezionali, e di talento, difficilmente potrebbero trascurare un posto così bello come la nostra Terra. «E così- disse Fermi- se tutto questo sta accadendo, dovrebbero essere già qui. Ma dove sono tutti?». Fu Leo Szilard, un uomo con un particolare senso dell’umorismo, a fornire la risposta perfetta alla domanda retorica di Fermi: «Sono tra noi! Ma si chiamano ungheresi!».”
Furono chiamati così, “i Marziani”, il gruppo di eminenti scienziati ungheresi di origine ebraica che emigrarono dall’Europa agli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso. Tra di loro, un nome spicca su tutti: John von Neumann. Tra i più grandi matematici e fisici del secolo scorso (e non solo), von Neumann è protagonista di numerosi aneddoti. Alfréd Rényi disse: “Gli altri matematici dimostrano ciò che possono, von Neumann ciò che vuole.”[3] E ancora un’altra famosa storia riguarda la domanda posta a Eugene Wigner, fisico ungherese vincitore del premio Nobel nel 1963, su come mai l’Ungheria avesse prodotto così tanti geni all’inizio del XX secolo.
“Così tanti geni? Non capisco la domanda. C’è stato un solo genio: John von Neumann.”[3]
I suoi contributi sono innumerevoli e abbracciano diversi ambiti della matematica e della fisica: dalla teoria degli insiemi, alla logica matematica e ai fondamenti della computazione, rivestendo un ruolo chiave nello sviluppo dell’architettura dei moderni computer, per poi dedicarsi alla teoria ergodica, alla teoria dei giochi, all’analisi funzionale e alla fluidodinamica. Ma, come scrive Léon Van Hove[4] “che von Neumann sia stato per eccellenza il matematico della meccanica quantistica è evidente a tutti i fisici”. Fu lui, infatti, a sviluppare il quadro formale della teoria.
Quando iniziò le sue indagini per una formulazione matematicamente rigorosa della teoria quantistica, questa viveva ancora il dualismo degli approcci della meccanica delle matrici di Werner Heisenberg, Max Born e Pascual Jordan e della meccanica delle onde di Erwin Schrödinger, che ne dimostrò più avanti l’equivalenza. Entrambe le versioni furono poi unificate in un quadro più generale, noto come “teoria delle trasformazioni”, sviluppata da Paul Dirac e Jordan. In questo contesto, Dirac fece ampio uso di uno strumento matematico fondamentale: la funzione delta. Sebbene si rivelò estremamente utile nell’adempiere al suo scopo, cioè quello di calcolare i processi quantistici, era matematicamente mal definita. Quando David Hilbert fece notare che la funzione delta poteva dar luogo a problemi, Dirac rispose: “Sono forse incappato in contraddizioni matematiche?”[5] Vent’anni più tardi, fu il grande Laurent Schwartz a sviluppare la teoria delle distribuzioni e a fornire una base rigorosa alla funzione di Dirac.
In un primo momento anche von Neumann, in collaborazione con Hilbert e Lothar Wolfgang Nordheim, cercò di seguire una strada simile ma si accorse presto che un approccio più naturale era offerto dalla teoria astratta e assiomatica degli spazi di Hilbert e dei loro operatori lineari. In questa formulazione, che ancora oggi viene usata, gli stati di un sistema fisico sono descritti da vettori nello spazio di Hilbert e le quantità che possono essere misurate sono rappresentate da operatori hermitiani che agiscono su tali spazi.
Tra il 1927 e il 1929 pubblicò diversi articoli e arrivò a sviluppare una teoria rigorosa, fornendo un contributo fondamentale alla comprensione matematica della meccanica quantistica, influenzando profondamente sia la fisica che l’analisi funzionale. A tal proposito, nonostante fosse stato uno dei primi matematici ad elaborare una teoria degli spazi infinito-dimensionali, completi e dotati di prodotto scalare, David Hilbert non sapeva che questi in suo onore fossero chiamati “spazi di Hilbert”. Il primo a utilizzare il termine der abstrakte Hilbertsche Raum (lo spazio di Hilbert astratto) fu proprio von Neumann nel suo lavoro sugli operatori hermitiani[6]. Una storia popolare, citata anche nel libro Mathematical Apocrypha Redux[7], racconta che nel 1929 von Neumann si fosse recato a Göttingen per esporre il suo lavoro sulla meccanica quantistica. Come ad ogni conferenza, seduto in prima fila ad assistere alla presentazione c’era proprio Hilbert. Quando von Neumann concluse, venne avvicinato da un confuso Hilbert che gli disse: “Dottor von Neumann, sarei veramente curioso di sapere cosa siano, alla fine, questi spazi di Hilbert.”
La maggior parte del lavoro fatto in quegli anni, in forma notevolmente ampliata, apparve in un libro pubblicato nel 1932 dal titolo Mathematische Grundlagen der Quantenmechanik (“I Fondamenti Matematici della Meccanica Quantistica), che divenne poi una delle principali opere di riferimento. In quest’opera von Neumann scrive nell’introduzione[8]:
“Verrà presentata una trattazione degli strumenti matematici necessari, ovvero la teoria dello spazio di Hilbert e dei cosiddetti operatori hermitiani. A tal fine, è necessaria anche un’accurata introduzione agli operatori non limitati, cioè un’estensione della teoria oltre i suoi limiti classici. Per quanto riguarda il metodo, di norma i calcoli verranno eseguiti direttamente con gli operatori stessi, che rappresentano le grandezze fisiche, e non con le matrici, che derivano da essi dopo l’introduzione di un sistema di coordinate (speciale e arbitrario) nello spazio di Hilbert. Questo metodo, privo di coordinate, cioè invariante, con il suo forte linguaggio geometrico, presenta notevoli vantaggi.
Dirac, in diversi articoli, così come nel suo recente libro, ha fornito una rappresentazione della meccanica quantistica difficilmente eguagliabile in termini di brevità ed eleganza, e che allo stesso tempo possiede un carattere invariante. È quindi opportuno avanzare alcuni argomenti a favore del nostro metodo, che si discosta considerevolmente da quello di Dirac. Il suo metodo non soddisfa in alcun modo i requisiti di rigore matematico, nemmeno se questi vengono ridotti in maniera naturale e adeguata al livello comunemente accettato nella fisica teorica. Ad esempio, il metodo si basa sulla finzione che ogni operatore autoaggiunto possa essere messo in forma diagonale. Per gli operatori per i quali ciò non è effettivamente possibile, si arriva all’introduzione di funzioni improprie con proprietà autocontraddittorie. L’inserimento di tali ‘finzioni’ matematiche è necessario nell’approccio di Dirac e quando il problema in questione è semplicemente quello di calcolare numericamente il risultato di un esperimento ben definito. Non ci sarebbero obiezioni in merito se questi concetti, che non possono essere incorporati nel quadro attuale dell’analisi matematica, fossero intrinsecamente necessari per la teoria fisica.
Si dovrebbe piuttosto sottolineare che la “teoria delle trasformazioni” della meccanica quantistica può essere formulata in modo altrettanto chiaro e unificato, ma senza obiezioni di natura matematica. È importante evidenziare che la struttura corretta non deve consistere in un raffinamento matematico del metodo di Dirac, ma richiede invece un approccio diverso fin dall’inizio, ovvero l’adozione della teoria degli operatori di Hilbert.”
Se si volessero riassumere i risultati ottenuti da von Neumann nel suo libro, oltre allo studio degli spazi di Hilbert e degli operatori lineari, egli fornì un’interpretazione matematicamente rigorosa del concetto di osservabile in meccanica quantistica, collegando ogni osservabile a un operatore autoaggiunto nello spazio di Hilbert. Analizzò poi l’impossibilità di un’interpretazione della teoria basata sulle variabili nascoste. Esaminò, inoltre, il processo di misura assumendo che anche l’apparato con cui si effettua questa operazione fosse governato dalle leggi della meccanica quantistica. Infine, affrontò la relazione tra la statistica quantistica e la termodinamica, mettendo in luce come alcune difficoltà della meccanica classica legate ai presupposti di disordine della termodinamica possano essere superate nel contesto quantistico.
Il tema delle variabili nascoste, così definite perché inaccessibili alle misurazioni, è particolarmente complesso e ha dato origine a un'intera nuova area di ricerca, contribuendo a scrivere importanti pagine della storia della scienza. Dalla formulazione del celebre paradosso di Einstein, Podolsky e Rosen, fino agli esperimenti di Aspect, Clauser e Zeilinger, e andando anche oltre, questo dibattito ha profondamente influenzato la nostra comprensione della meccanica quantistica. Già nel 1949 nell’opera “Filosofia naturale della causalità e del caso”, Max Born scriveva:
“John von Neumann nella sua brillante opera ‘Fondamenti Matematici della Meccanica Quantistica’ propone la teoria su una base assiomatica, derivandola da pochi postulati di carattere generale (…) Ne risulta che il formalismo della meccanica quantistica è unicamente determinato da questi assiomi; in particolare, non è possibile introdurre dei parametri occulti grazie ai quali la descrizione indeterministica potrebbe divenire deterministica. Pertanto, se una teoria futura dovesse essere deterministica, essa non potrebbe essere una modificazione della teoria attuale, ma dovrà essere radicalmente diversa da questa.”
Certamente una teoria in tal senso doveva riprodurre tutti i risultati sperimentalmente confermati dalla meccanica quantistica. Secondo David Mermin[9] molte generazioni di studenti si sono scontrate con una “famosa falsa partenza”. Infatti, la dimostrazione dell’impossibilità di costruire una teoria in tal senso di von Neumann conteneva un errore. Già alcuni anni dopo, la matematica tedesca Grete Hermann mosse una critica per un’evidente carenza nelle argomentazioni usate da von Neumann, ma il suo lavoro fu completamente ignorato. La dimostrazione venne poi ripresa e migliorata da Simon Kochen e Ernst Specker in un noto articolo del 1967[10].
È comunque da sottolineare che il testo di von Neumann, originariamente in tedesco, fu tradotto in inglese non prima degli anni Cinquanta. Freeman Dyson in [5] commenta:
“Lessi il libro nel 1946, quando ero ancora un matematico puro. Lo trovai estremamente utile. I concetti erano definiti con rigore e le conseguenze rigorosamente dedotte; gran parte del lavoro era originale, in particolare i capitoli sulla statistica quantistica e sulla teoria della misurazione. Ma poi, dopo essere passato alla fisica e aver iniziato a leggere le riviste scientifiche dell’epoca, rimasi sorpreso nello scoprire che nessuno di loro faceva riferimento al libro di John. Per quanto riguardava i fisici, John non esisteva. Naturalmente, la loro ignoranza del suo lavoro era in parte un problema di lingua. Il libro era in tedesco e la prima traduzione in inglese fu pubblicata solo nel 1955. Tuttavia, credo che, anche se fosse stato disponibile in inglese, i fisici degli anni ’40 non lo avrebbero trovato interessante. Quella era un’epoca in cui la cultura della fisica e la cultura della matematica erano più distanti che mai. Il divario tra fisica e matematica era tanto ampio quanto quello tra scienza e discipline umanistiche descritto da C. P. Snow nel suo celebre discorso sulle due culture.
John era una delle pochissime persone a sentirsi a casa in tutte e quattro queste culture: nella fisica e nella matematica, ma anche nella scienza e nelle discipline umanistiche.”
Von Neumann scrisse molti altri lavori sulla meccanica quantistica e si interessò fino alla fine dei suoi giorni della questione. Peter Lax disse [3]: “Ricordo la soddisfazione e l’entusiasmo con cui Neumann, nel 1953, apprese che Kato aveva dimostrato che l’operatore di Schrödinger per l'atomo di elio è autoaggiunto.”
Note:
[1] Citazione di Edward Teller presente nel libro The Man from the future: the visionary life of Jon von Neumann di Ananyo Bhattacharya (versione italiana stampata da Adelphi e tradotta da Luigi Civalleri)
[2] George Marx The voice of the Martians: Hungarian Scientists who shaped the 20th Century in the West
[3] Domokos Szász John von Neumann, the Mathematician Math Intelligencer 33, 42–51 (2011)
[4] Léon van Hove Von Neumann’s contributions to quantum theory Bull. Amer. Math. Soc. 64(3.P2): 95-99 (May 1958).
[5] Freeman Dyson Von Neumann work related to Quantum Theory
[6] v. Neumann, J. Allgemeine Eigenwerttheorie Hermitescher Funktionaloperatoren. Math. Ann. 102, 49–131 (1930). https://doi.org/10.1007/BF01782338
[7] Steven Krantz Mathematical Apocrypha Redux: More Stories and Anecdotes of Mathematicians and the Mathematical American Mathematical Society (2006)
[8] v. Neumann, J. Mathematical foundations of quantum mechanics Princeton University Press (1955)
[9] Mermin D.N. Hidden variables and the two theorems of John Bell. Reviews of Modern Physics, 65, 803-815. (1993)
[10] Simon Kochen, Ernst Specker The Problem of Hidden Variables in Quantum Mechanics, Indiana Univ. Math. J. 17 No. 1 (1968), 59–87
